Gli italiani sono famosi nel mondo per la loro passione per i motori (oltre che per le donne). L'abilità nella guida e il brivido della velocità sono da tempo (dis)valori che accomunano trasversalmente strati sociali e generazioni diverse. Oltre ad essere una nazione di allenatori di calcio, ci vantiamo di essere anche una nazione di piloti.
L'origine di questa italica mania risale forse alla mitologia del Futurismo, quando nei primi anni del Novecento Marinetti e compagnia diedero il via all'esaltazione di quel ritrovato della modernità sfrecciante sulle quattro ruote. Allora si parlava di primitivi prototipi, quelle sferraglianti carrozze erano ancora poco diffuse, ma ben si prestavano a simboleggiare metaforicamente il progresso e il nuovo che avanza. A leggerli oggi però quei testi e quei manifesti sembrano molto naif.
Nel frattempo, seguendo lo sviluppo economico dell'industria automobilistica, l'oggetto macchina si è trasformato in status symbol, effige di potere, rappresentazione di mascolinità e garanzia di sex appeal. Un oggetto desiderabile e desiderato, archetipo di successo e vitalità/virilità, o almeno questi sono i capisaldi delle campagne pubblicitarie che spacciano macchine sempre più nuove, potenti, sicure, affidabili, veloci.
Fin qui parrebbe essere ancora su piani poco distanti dall'estetica futurista: ma ormai abbiamo scoperto che le auto inquinano, e che, soprattutto, le auto uccidono. O meglio: la velocità uccide.
Il sogno di potenza può trasformarsi rapidamente in un incubo di morte tra lamiere accartocciate, ma si preferisce non parlarne: la responsabilità di morte attribuibile alla velocità è tabù.
Eppure una rilettura creativa di quegli stessi materiali pubblicitari inneggianti alle meraviglie delle auto può svelarci un paradosso in grado di incrinare il mito sapientemente costruito da chi vendendo macchine ci guadagna.